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Homeland – 3×04/3×05 – Game On/Yoga Play

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«She’s on her own, Saul».

«She’s always been on her own». 

L’anno scorso Homeland ha probabilmente esagerato.  Troppe svolte narrative, troppe uscite di scena, troppi filoni interessanti bruciati in pochissimo tempo (a volte nel giro di un solo episodio), ed in chiusura un season finale forse troppo coraggioso. La terza stagione ha avuto il compito ingrato di ripartire letteralmente dalle macerie, e per questo motivo ho chiuso un occhio sulla relativa lentezza delle prime puntate. Prima di tornare a spingere sull’acceleratore, la serie ha bisogno di acquisire nuovo carburante, e quindi ben vengano nuovi personaggi, ben vengano episodi più giocati sull’atmosfera (vedi Tower of David, a mio avviso ottimo) e ben vengano ritmi meno serrati… anche se fino a un certo punto. Partire subito in quarta avrebbe potuto avere pessimi effetti collaterali, con il rischio di sconfinare nel trash. La difficoltà/sfida degli sceneggiatori è stata anche quella di ripartire senza Brody, uno dei tre pilastri della serie (insieme a Carrie e Saul). Avrebbero potuto mostrarci la sua fuga, aumentando anche il livello di “azione” delle puntate, ma alla fine non c’era modo di farlo interagire con personaggi già conosciuti. Dobbiamo metterci il cuore in pace: ci vorrà un bel po’ per riaverlo in gioco come ai vecchi tempi.

“You’ve been very, very brave.”

I protagonisti di questa stagione sono inequivocabilmente Carrie e Saul, a cui spetta il gravoso compito di tenere in piedi la baracca. Se nella prima stagione mettevamo in dubbio le intenzioni di Brody, il primo filone di questa stagione ci ha regalato un Saul terribilmente enigmatico. Il suo presunto voltafaccia a Carrie ha sorpreso tutti, e gli autori sono stati ancora una volta abili a gettarci ondate di fumo negli occhi. Il finale di Game On ribalta le carte in tavola, mostrandoci che Carrie e Saul erano segretamente complici. «It worked, Saul» dice Carrie, riferendosi all’incontro con l’avvocato Leland Bennett, portavoce dell’iraniano Majid Javadi, l’uomo che ha finanziato l’attentato terroristico a Langley e che probabilmente ricicla soldi a Caracas, sotto la falsa identità di Nasser Hejazi (il nome del suo eroe dell’infanzia). Il piano di Saul è stato geniale: in un colpo solo ha scrollato di dosso all’agenzia le gravi responsabilità per non aver previsto l’attentato (facendo ricadere indirettamente la colpa su Brody e Carrie) e al contempo ha fatto sembrare Carrie una preziosa pedina impazzita, pronta a tradire la CIA (vedi l’incontro con la reporter).

Era solo l’ennesimo gioco di specchi, e credo che buona parte del pubblico abbia abboccato (io di sicuro). D’altronde erano pochi gli elementi che facevano presumere il bluff, tra tutti il personaggio di Saul, che non avrebbe “gettato Carrie sotto un bus”, o almeno, non senza la sua complicità. Assumono una nuova valenza anche quelle strane inquadrature (spesso di spalle) che lo vedevano perfettamente immobile, come un giocatore di scacchi intento a valutare attentamente le sue prossime mosse. Ho letto alcuni commenti in rete di gente che non trova coerenti le azioni di Carrie, a loro avviso troppo spaventata e incazzata con Saul. Rivedendo i momenti salienti delle puntate passate, e anche della stessa Game On, non noto niente di realmente incoerente. Claire Danes era già stata informata del bluff, e ha dovuto recitare in modo doppiamente difficile, rendendo credibili due versioni quasi opposte. Prendiamo per esempio il finale della premiere, dove assiste al suo sputtanamento in diretta nazionale. La recitazione è credibile sia nella vecchia versione antecedente al plot twist (“Saul mi ha tradita, non riesco a crederci”), sia nella nuova versione (“ora che mi ha ufficialmente smerdato, non si può più tornare indietro”). Per quanto riguarda le successive crisi nell’ospedale psichiatrico, teniamo presente che Carrie stava davvero soffrendo da cani lì dentro, e che a un certo punto voleva davvero mollare il piano di Saul («This is a fucking sham!» urlava nel secondo episodio).

“You’re an amazing person, Carrie Mathison. Amazing.”

Carrie viene prima trattenuta, poi fatta uscire dall’ospedale grazie a dei giochi di influenza. Dar Adal fa in modo di bloccare la commissione (favorevole al suo rilascio) tramite un mandato del Dipartimento di Giustizia, ma subito dopo a Carrie viene misteriosamente concesso un congedo di 24 ore. L’avvocato Paul Franklin – introdottosi in casa sua – le spiega che i suoi soci hanno il potere di rendere il rilascio permanente, e la porta all’incontro con il suo collega Leland Bennet, altro apparato di una macchina grande e perversa. Nella sua villa, Carrie accetta di collaborare con gli iraniani (ma solo dopo un “faccia a faccia”), dopo aver “finto” di essere indignata e combattuta, e così il gioco a inizio. Game On si presta sia come perfetta conclusione del primo ciclo stagionale (con un plot twist davvero raffinato), sia come introduzione del secondo ciclo, in grado di incuriosire gli spettatori. Se ci pensiamo, è stata recuperata l’idea del doppio gioco di Carrie in un’operazione clandestina (stavolta non proprio della CIA, ma di Saul in persona), che nella scorsa stagione era durata solo per qualche manciata di minuti. E questo Homeland più lento mi sembra anche più maturo e saggio nel giocarsi le sue (non più tante) carte. Peccato però che l’obiettivo stavolta non è (o implica) Brody, ma soltanto i terroristi iraniani e in particolare Majid Javadi, che potremmo definire il nuovo Big Bad tra i terroristi.

“I’m afraid you’ve got this backwards, old friend.”

Mentre Game On è un episodio dove si rimescolano sapientemente le carte, Yoga Play è più vicino a un filler (anche se la parte di Saul introduce di fatto un nuovo “capitolo” all’interno della CIA). La puntata è costruita sull’attesa del “faccia a faccia” tra CarrieMajid Javadi, che avviene solo a fine episodio (un po’ come State of Independence rimandava alla fine la scena dove Saul mostrava a Carrie il video di Brody). Nel frattempo, viene accorpata (e spero conclusa) la storyline di Dana (sgradevole come l’anno scorso), con Jessica che bussa alla porta di Carrie per chiederle aiuto, in maniera un po’ forzata. Per amore di Brody (non me lo spiego altrimenti), Carrie rischia di compromettere l’intera operazione, mettendo in piedi una tecnica di depistaggio (lo Yoga Play da cui prende il nome la puntata) solo per andare a parlare con un agente dell’FBI. Confesso di aver trovato il tutto discretamente affascinante, non tanto per l’espediente della “sosia” che fa yoga al posto suo (carino), quanto per il campo minato in cui si trova a muoversi Carrie, tra tempi risicati e persone che potrebbero ucciderla al primo errore.

“English, please.”

Yoga Play non è sicuramente un grande episodio, anzi, ma ci restituisce bene l’idea della situazione di Carrie, preoccupata di non far saltare il suo bluff, e costretta a fare i salti mortali anche per una semplice conversazione. Non si respira grande tensione, ma le pedine vengono usate discretamente (Virgil e Max tornano a fare qualcosa) e si riempie bene l’attesa per l’incontro con Javadi, introdotto già a inizio episodio. Lo vediamo entrare negli Stati Uniti (precisamente dal confine tra Canada e Vermont) con un’altra falsa identità (Zarin) e fermarsi a mangiare con gusto un hamburger in macchina, lanciando occhiate indecifrabili a una madre con un bambino (ha un figlio piccolo anche lui?). Sembra che il personaggio apprezzi alcuni lati della cultura americana, chissà se è soltanto una nota di carattere o avrà un valore più concreto.

“The one thing I cannot have in my life is lies, and you lied to me!”

Nel quarto episodio, Leo e Dana fuggono insieme, e Mike (che non si vedeva dal finale della scorsa stagione) informa Jessica che il ragazzo potrebbe essere pericoloso, avendo ucciso il fratello dopo un patto suicida. Le pressioni di Carrie sull’agente dell’FBI non credo siano servite a nulla (al massimo a far circolare meglio la notizia al telegiornale, dando modo a Dana di scoprire la storia del patto suicida). La fuga termina al quinto episodio, in maniera tematicamente coerente (Dana non riesce a sopportare le menzogne e si consegna alla polizia), ma sempre poco interessante. Spero che la storia di Leo si sia conclusa, e che lo spazio dedicato a Dana venga ridotto nelle prossime puntate. Abbiamo capito cosa sta passando, adesso basta con le sue lagne. Spero anche che Jessica riesca a ritagliarsi un ruolo più “dignitoso”, magari affrontando i problemi finanziari di cui si parlava nell’avvio di stagione.

Se le vicende di Carrie sembrano importanti e si rivelano filler, quelle di Saul al contrario sembrano filler ma nascondono dettagli importanti. La battuta di caccia all’anatra a cui credeva di essere stato invitato si rivela niente popò di meno che… una caccia all’oca! Ma a parte queste rivelazioni sconcertanti, Saul viene messo al corrente che il Senatore Andrew Lockhart sarà nominato nuovo direttore della CIA, prendendo il suo posto nel giro di un paio di settimane. Il personaggio di Lockhart mi aveva già convinto nella season premiere e continua a piacermi, specialmente per il modo credibile in cui è tratteggiato e interpretato. Spero però che gli autori non vogliano semplicemente fare un passo indietro, scalzando di fatto Saul dal suo nuovo interessante ruolo e riprendendo di peso l’agenda politica di William Walden (sintetizzabile con: “droni, non ci sono paragoni”). Insomma, non voglio che Javadi e Lockhart diventino le copie sputate di Nazir e Walden, e spero che gli autori sappiano sorprenderci da questo punto di vista.

In ogni caso, la serie sente ancora la mancanza di Brody, confinato nella Torre di David a Caracas. Sarebbe bello riuscire a vederlo in maniera più frequente a partire dalla seconda metà di stagione, preparando un suo rientro in gioco nella quarta stagione. Per il momento questo Homeland sta dimostrando di sapersela cavare comunque, anche se un filler (Yoga Play) dopo quattro episodi lenti non è esattamente il massimo. L’Ok che vedete in basso è una media tra l’Ok tendente al Fuck Yeah di Game On, e l’Ok tendente al Meh! di Yoga Play. Ora sarebbe il caso che Homeland iniziasse a cambiare marcia, tornando a farci sentire il rombo dei suoi motori.

Ok.

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